Il linguaggio poetico: il livello avanzato della lingua

L’indole artistica dell’uomo, che da millenni lo ha portato a realizzare opere di incalcolabile bellezza e significato attraverso pitture e sculture, nel tempo si è riversata anche su quello che più contraddistingue la specie umana dagli altri esseri viventi: il linguaggio. Lo spirito creativo che portiamo dentro di noi ci ha spinto ad un utilizzo artistico della lingua, dando origine al linguaggio poetico.

È difficile spiegare cos’è il linguaggio poetico. Lo si potrebbe considerare come un secondo livello della lingua, come una capacità di categoria avanzata in grado di dire molte più cose di quelle che dicono le semplici parole utilizzate. È come se l’uomo, una volta imparata la lingua e sperimentato le sue “funzioni base”, non si fosse accontentato dello strumento a sua disposizione e avesse deciso di concentrarsi sulla forma delle sue espressioni per creare cose nuove. Con il linguaggio poetico, infatti, non ci si limita a trasmettere i significati strettamente legati ai vocaboli, ma si creano immagini mentali, si realizzano degli effetti di senso in grado di comunicare quel di più che tocca la nostra sfera emotiva.

Anche se al giorno d’oggi il linguaggio poetico ha tante forme ed è impiegato in testi di diversa natura, ciò che più lo rappresenta è sicuramente la poesia. Un componimento poetico è un testo con una struttura specifica molto articolata, fatta di elementi codificati e ricorrenti di non immediata comprensione. Ci sono anzitutto versi e strofe, che possono essere ordinati secondo una numerosa varietà di rime in grado di dare al componimento un suo preciso ritmo; il tutto, a sua volta, costruito secondo delle figure retoriche di fondamentale importanza. La figura retorica è un artificio del discorso, un’alterazione stilistica che genera determinati effetti e significazioni. Metafore, allegorie e metonimie, sono l’esempio più frequente e ampiamente conosciuto di un modo di esprimersi che affascina e diventa spettacolo.

Ma ci sono numerosi altri giochi di parole diventati ormai automatici e immancabili. Una figura retorica semplice e tanto utilizzata è anche l’anastrofe, che consiste nell’inversione dell’ordine naturale di due parole all’interno di un verso, per dare rilievo al vocabolo che viene anticipato. In termini semplici, nel linguaggio poetico si tende ad anteporre l’aggettivo all’oggetto, o il verbo al soggetto, contrariando la struttura standard dell’italiano. Ad esempio Leopardi, ne L’infinito, parla di “sovrumani silenzi” o di “profondissima quiete”, mentre D’Annunzio ne L’oleandro scrive “Odono i monti e le valli e le selve”.

Queste sono solo pillole di un apparato di funzioni linguistiche poetiche davvero infinito, che da secoli decora e abbellisce la nostra lingua; crea arte verbale in grado di comunicare in maniera quasi non verbale con il nostro tessuto emotivo. Il tutto, forse, col solo scopo di rendere più bella la nostra vita.

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Il dialetto romanesco e la voce di Roma

Il dialetto romano è la varietà linguistica locale della zona di Roma, parlato perlopiù nella città e nelle aree immediatamente circostanti. Fa parte dei dialetti mediani, che come tutte le lingue romanze del gruppo italico discendono dal latino volgare. La sua storia è piuttosto atipica e ricca di contaminazioni esterne: contrariamente a quanto accaduto per gli altri dialetti centro-meridionali, il romanesco ha subito un forte condizionamento del dialetto toscano durante il Rinascimento, tanto da modificarne tratti e strutture grammaticali. È questa una delle ragioni per cui il romano assomiglia più degli altri dialetti all’italiano ufficiale. Questa vicinanza è così forte a tal punto che parlanti di altre regioni riescono a comprendere facilmente il romanesco, ma non i dialetti di altre zone del Lazio. Questa sua chiarezza ed immediatezza hanno fatto sì che molte volte fosse declassato a mero accento o cadenza locale.

In realtà il romanesco, che merita a tutti gli effetti il titolo di dialetto, deve la sua grande diffusione e comprensibilità anche ad altri apporti esterni. I flussi migratori che hanno portato decine di migliaia di persone nella nuova capitale a partire dal 1871, hanno fatto sì che dialettofoni di tutta Italia non solo imparassero il romanesco, ma contaminassero con la loro lingua lo stesso romano. È lì che nacque il cosiddetto “romanaccio”, una sorta di neodialetto a metà fra l’originario romanesco e il nuovo miscuglio di modi di dire ed espressioni provenienti da tutta la nazione. Ad oggi queste due realtà si sono sovrapposte, dando origine, appunto, ad un romano piuttosto standardizzato e alla portata di tutti.

Il successivo avvento del cinema, specialmente di quello neorealista, hanno dato al romanesco una popolarità ancora maggiore, rendendolo spesso protagonista di grandi pezzi di storia della cinematografia italiana. Una notorietà, questa, che con il tempo è stata deviata e incastrata in stereotipi spiacevoli: nel corso della sua storia, la televisione ha sempre proposto un cliché di romano ignorante e volgare, attribuendo valori di basso livello ai sui tipici tratti distintivi.

Quando qualcuno vuole fare il verso ad un romano, la prima cosa che fa è mettere la /r/ al posto della /l/ (per esempio “dolce” diventa “dorce”), alludendo ad una qualche incapacità di parlare correttamente, senza sapere che questo fenomeno – detto rotacismo –  non solo è comune a molti altri dialetti, ma è presente anche nel fiorentino più tradizionale e stretto, da cui deriva l’italiano. Oppure si cominciano a troncare parole (vede’ al posto di vedere), aggravandolo con un tono sgraziato che non ha ragione di esistere.

Tuttavia, il dialetto romano ha anche una sua dimensione letteraria di grande rilievo: poeti come Giuseppe Gioachino Belli, Trilussa, Cesare Pascarelli o Mario Dell’Arco, sono considerati dei veri e propri maestri, che con i loro componimenti hanno contribuito a costruire una vera e propria cultura romanesca.

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I modi di dire sulla Capitale: chi va a Roma perde…

Se avete pensato “la poltrona”, è perché non solo siete italiani, ma sotto sotto siete anche un po’ degli storici. Ogni lingua porta con sé intere generazioni, valori e principi di una popolazione, che si registrano e tramandano in forme linguistiche sempre nuove, tra cui proverbi e modi di dire.

Una città come Roma, da sempre centro di numerose vicende storiche, non poteva non trovare un posto privilegiato nella rosa dei detti italiani. Si riscontrano circa venti modi dire su Roma di uso quotidiano – tra cui solo una piccola percentuale di origine romana – ciascuno con una sua genesi precisa.

La maggior parte dei detti utilizza la Capitale come simbolo di grandezza, tra cui “Roma non è stata costruita in un giorno” oppure “Roma fu fatta un po’ per volta”; ma ci sono anche quelli che vedono la Città Eterna come centro indiscusso di ogni cosa, come “Tutte le strade portano a Roma” o il più eccentrico “Roma è la capitale del mondo”. Non manca poi l’occhio critico – estremamente attuale – che nella grandezza vede sempre qualcosa di inconcluso: “Roma è come la Fabbrica di San Pietro, non finisce mai”.

E questo riferimento a San Pietro è solo l’apripista di un’altra lunghissima serie di modi di dire legati alla religione, che ci fanno scoprire un popolo romano e italiano piuttosto irritato. “Quando a Roma ce s’è messo er piede, resta la rabbia e se ne va la fede” potrebbe essere il lapidario titolo di una fantasiosa lista di frecciatine come: “Roma veduta, religione perduta” o “Chi sta lontano da Roma sta più vicino a Dio”, con annesse varianti dialettali tipo “Chi a Roma vo’ gode’, s’ha da fa frate”. È un paradosso per una città così cattolica come questa, no?

Per fortuna però, gli italiani sono molto autoironici e sanno prendere alla leggera certi piccoli drammi nazionali; e pur mantenendo citazioni di matrice religiosa, partoriscono detti simpatici come “A Roma Iddio nun è trino, ma quatrino”, alludendo al fatto che giri tutto intorno al denaro, o “Come andare a Roma e non vedere il Papa”, che lega la Capitale e la Chiesa con un’ovvia induzione. Da non dimenticare poi l’utilizzo di un nome tipicamente biblico in “Cercare Maria per Roma”, che può essere considerata la versione regionale del famoso ago nel pagliaio.

Esiste inoltre una minoranza di detti legati agli abitanti di Roma. Non è difficile trovare italiani di altre regioni che al ristorante pagano il conto “alla romana”, cioè ognuno la sua parte, ed è un vanto per molti poter dire che “Li romani parlano male, ma pensano bene”.

Non sono da trascurare infine tutte quelle espressioni che manifestano un orgoglio campanilistico: se a qualche politico venisse ancora l’idea di utilizzare lo slogan “Roma ladrona”, sicuramente arriverebbe una risposta corale del tipo: “L’unica cosa bella a Milano è il treno per Roma” o “Se a Roma ci fosse il porto, Napoli sarebbe un orto”, giusto per mettere le cose in chiaro sia a Nord che a Sud.